Sale a 21mila il bilancio ufficiale delle vittime palestinesi di Gaza. Se si sta alle statistiche, cioè che prima della guerra era abitata da circa 2 milioni di abitanti, Israele ha ucciso più dell’1% della popolazione. La guerra ha prodotto, inoltre, circa 55mila feriti, di cui tanti ormai disabili permanenti: si tratta di quasi il 3% della popolazione. Numeri indicativi che, peraltro, sono destinati a crescere, sia per il perdurare dei combattimenti sia per le malattie causate dalla mancanza di cibo, acqua e medicinali.

Gaza, il rischio epidemie. Arma a doppio taglio

A proposito di quest’ultimo aspetto, si registra che un soldato israeliano, ferito a Gaza, è morto a causa di un’infezione fungina successiva, patologia contratta nel corso del servizio militare. Tale evento ha creato preoccupazione in Israele, dove il ministero della Sanità ha allarmato sulla possibilità che nel Paese si diffondano malattie infettive provenienti da Gaza. Lo strazio al quale sono condannati i palestinesi potrebbe ritorcersi contro chi lo sta causando… una variabile nuova dell’insanguinato puzzle di Gaza.

Al di là dell’usuale mattanza e delle immagini atroci provenienti da Gaza e dalla Cisgiordania – tra le quali le ormai solite immagini di civili trattati come bestie, legati e ridotti alla semi-nudità sotto lo sguardo vigile dei soldati israeliani (video) – e in attesa di una possibile svolta della guerra verso una fase meno cinetica – ipotesi ancora in sospeso -, due gli eventi di maggior rilievo di questi giorni: l’assassinio del generale iraniano Razi Mousavi in Siria e il disinteresse dell’Arabia saudita per l’operazione anti-Houti nel Mar Rosso.

L’assassinio del generale

Riguardo il primo evento, è alquanto ovvio che l’omicidio del generale, portato a termine in uno Stato terzo, la Siria, aveva il potenziale per allargare la guerra all’Iran. Di interesse notare che, negli stessi giorni, l’Aiea, l’agenzia per l’atomica, ha denunciato un incremento dell’arricchimento di uranio da parte di Teheran (negato dagli interessati).

Insomma, si nota una spinta per dare avvio a una disastrosa guerra contro l’Iran. Per fortuna, Teheran ha risposto in maniera non altrettanto devastante, avvertendo che ci sarà un risposta all’assassinio, ma modulata. Non è caduta nella trappola, ma il rischio resta. Ovviamente, se il conflitto si allarga gli Stati Uniti e probabilmente i suoi alleati d’Occidente ne sarebbero coinvolti.

Quanto all’operazione in sé, Israele l’ha legittimata in quanto Teheran presta assistenza alla macchina da guerra di Hezbollah, con la quale è ingaggiata in un duello a medio-bassa intensità al confine libanese. Un po’ come se la Russia uccidesse un generale Nato in un Paese terzo per l’assistenza prestata all’Ucraina. Tant’è.

L’Arabia Saudita preferisce far pace con gli Houti

In attesa degli sviluppi, si registra il niet dell’Arabia Saudita a far parte della coalizione anti-Houti nel Mar Rosso, coalizione organizzata dagli Stati Uniti per impedire a questi ultimi di continuare a sbarrare il passo alle navi dirette verso Israele, operazione che i ribelli yemeniti hanno detto che avrà termine quando Tel Aviv porrà fine alla guerra di Gaza (invece di assecondare tale richiesta, gli USA aprono un altro fronte…).

Nel riferire la posizione di Riad, il New York Times spiegava: “L’Arabia Saudita, tuttavia, preferisce guardare questi ultimi sviluppi da bordo campo, perché la prospettiva di una pace al suo confine meridionale è un obiettivo più allettante che unirsi alle forze messe in campo per fermare gli attacchi che gli Houthi dicono siano diretti contro Israele – uno stato che il regno snobba né riconosce ufficialmente e che è ampiamente inviso dal suo popolo” (dinamica, in realtà, incrementata esponenzialmente dalla mattanza di Gaza).

Ancora più interessante la parte dell’articolo in cui si riportano le dichiarazioni del principe Faisal bin Farhan, ministro degli Esteri saudita: “L’escalation non è nell’interesse di nessuno. Siamo impegnati a porre fine alla guerra in Yemen e ci impegniamo per un cessate il fuoco permanente che apra la porta a un processo politico” che pacifichi il Paese.

Bizzarro che Biden, il quale annunciò solennemente all’inizio del suo mandato che si sarebbe impegnato per porre fine al terribile conflitto yemenita, sia diventato il più grande ostacolo a tale processo. Tali i rivolgimenti della geopolitica.

fonte:

Di BasNews

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