di Americo Mascarucci

Cento anni fa nasceva don Lorenzo Milani, il sacerdote fiorentino che dando vita all’esperienza di Barbiana ebbe un ruolo importante nel riformare il concetto di scuola in Italia: secondo gli ammiratori si deve a lui  la nascita e lo sviluppo del moderno concetto di “scuola pubblica” aperta e accessibile a tutti, mentre secondo i detrattori è il principale responsabile del sessantotto e della crisi del sistema educativo.

Don Milani continua ad essere un personaggio controverso, amato ed odiato a seconda dei punti di vista, ed è stata una figura ingombrante soprattutto per la Chiesa che non è mai riuscita a fare fino in fondo i conti con l’eredità scomoda del sacerdote, con un dibattito sulla sua figura ancora oggi aperto e divisivo. Il priore di Barbiana ebbe con le gerarchie dell’epoca un rapporto fortemente conflittuale, e fu proprio per le sue posizioni giudicate rivoluzionarie e scomode che fu allontanato da Firenze dall’allora arcivescono e Servo di Dio Elia Dalla Costa e “confinato” a Barbiana, un borgo di montagna lontano dalle vicende politiche del capoluogo fiorentino. Qui il sacerdote fondò la sua scuola per i figli dei poveri, quelli che a suo giudizio erano condannati a restare analfabeti a causa delle difficoltà di accesso e di inserimento nella scuola dell’epoca, considerata espressione della borghesia dominante.

Una scuola quella di don Milani che però era soprattutto basata suill’impegno sociale e sul concetto di riscatto, dove ai ragazzi veniva insegnato a maturare una coscienza critica rispetto alle grandi questioni del tempo. La Chiesa non ha mai perdonato a Don Milani la dimensione politica e sociale messa al primo posto rispetto a quella spirituale, e soltanto con papa Francesco c’è stata una prima apertura di credito nei suoi confronti, con la visita del pontefice alla comunità di Barbiana e la rottura di un silenzio prolungato nel tempo, quasi con l’idea di accreditare un don Milani finito nella Chiesa per sbaglio, una sorta di corpo estraneo, nonostante i tentativi dell’ex arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli di rivalutarne la figura.

Ma tornando ad oggi, interessante vedere come don Milani continui ad essere strumento di contraddizioni e di divergenze. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ne ha elogiato la figura di educatore e soprattutto di alfiere di una scuola di tutti, accogliente e plurale capace di non lasciare indietro nessuno.

“La scuola è di tutti e per tutti e, in un Paese democratico, non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine – ha detto il Capo dello Stato –  Ma soprattutto non deve allargare il solco esistente tra chi è già avanti come possibilità e chi da sempre indietro, come peraltro è scritto limpidamente nella Costituzione: una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale”.

“Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito – ha aggiunto ancora Mattarella – merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto e per non far perdere all’Italia talenti preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito. Don Milani fu testimone – ricorda il presidente – coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana”.

Il merito dunque come opportunità per tutti ci ricorda il Capo dello Stato, ma le critiche maggiori a don Milani sono giunte proprio sul concetto di merito che il priore di Barbiana sembrava rifiutare e combattere come causa delle disuguaglianze sociali e delle ingiustizie.

Lo scrittore Sebastiano Vassalli per esempio, riteneva che proprio la guerra di don Milani al merito fosse alla base della crisi della scuola moderna, una scuola che facendo propria la lezione del priore di Barbiana e garantendo il sei politico a tutti, aveva finito con il soffocare il talento e paradossalmente aumentare il divario fra ricchi e poveri; con i primi che potevano permettersi la scuola privata dove poter mettere meglio a frutto le proprie capacità e gli altri, i poveri, costretti a frequentare una scuola pubblica dove i loro meriti non erano invece valorizzati.  E Vassalli accusava don Milani di essere stato un “cattivo maestro”, l’ispiratore del sessantotto, il demolitore del sistema educativo.

E oggi le stesse accuse di Vassalli lanciate negli anni ottanta del secolo scorso sono state riprese dallo scrittore e filosofo Marcello Veneziani che in occasione del centenario del priore ha scritto: “Don Milani praticava la carità, si dedicava ai ragazzi con tutto il cuore, nella Firenze dei La Pira, don Balducci e don Turoldo, ed è morto giovane. Don Milani sognava una scuola non dei ricchi ma di tutti, col professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature e senza autorità, perché ‘l’obbedienza non è una virtù’. Nobili intenzioni, ma spostiamoci sugli effetti. La scuola di oggi che onora don Milani e non certo il modello della scuola di Gentile, fa assai più schifo della scuola di allora; non premia i meriti e le capacità, non educa, non stimola alla cultura e non suscita spirito di missione nei docenti; non produce affatto alunni più liberi ed uguali. E’ una scuola che ha ingigantito le distanze tra ricchi e poveri; sfasciata la scuola pubblica, i benestanti hanno mandato i loro figli alle private. Se togli i meriti resta il censo, resta quel che ti dà la famiglia. Al nostro liceo il preside era figlio di contadini e da ragazzo faceva il contadino pure lui; e il professore di lettere aveva umili origini. Grazie alla loro tenace capacità, si erano fatti strada; il latino per loro non era una forma di oppressione di classe, come sostenevano gli allievi di don Milani, ma un mezzo per emanciparsi, persino un mezzo di rivalsa rispetto ai ricchi, pigri, incolti e viziati. La selezione dei più bravi aveva permesso il loro riscatto, la loro affermazione. I seguaci di don Milani chiesero di abolire i grembiuli, ritenuti strumenti di oppressione e di irregimentazione; così risaltano le differenze di classe tra i figli griffati della classe agiata e i poveracci di borgata. La conoscenza della lingua italiana era un modo per uscire dalla loro origine umile e contadina e integrarsi. La valorizzazione del dialetto e del gergo quotidiano, che voleva don Milani, invece li restituisce alla loro condizione di partenza e al turpiloquio delle periferie degradate. Livellando si, ma verso il basso: anche i figli di papà usano il turpiloquio sgangherato della tv e di borgata. La fine della leva obbligatoria, come sognava don Milani, ha prodotto la fine di uno dei pochi luoghi di socializzazione in cui i terroni convivevano coi polentoni, i ricchi coi poveri”.

Veneziani conclude dicendo: “Invece, ricorre in silenzio tra qualche giorno un altro centenario della nascita di un altro cattolico fiorentino: è Attilio Mordini, cattolico della tradizione, studioso dei miti, morto anche lui a 43 anni, l’anno prima di don Milani. Mordini capì che la scuola senza educazione, tradizione e meritocrazia non ha più un ruolo e a farne le spese sono più i poveri che i benestanti. Vorrei che don Milani fosse ricordato con Mordini: il fiorentino e cattolico Franco Cardini, che li amò entrambi, sarà d’accordo. Don Milani va riconosciuto per la sua forte personalità e la sua grande idealità ma fu un cattivo maestro. A giudicare dai frutti, non dalle intenzioni. Non un maestro cattivo, al contrario, ma un cattivo maestro”.

Un cattivo maestro che però la cultura di sinistra ha elevato a profeta perché possedeva tutte le caratteristiche che piacevano ai contestatori dell’epoca che leggevano il libretto rosso di Mao e che oggi sono fra i principali commentatori dei più blasonati giornali italiani. Don Milani contestava la Chiesa e le sue gerarchie in base al motto “l’obbedienza non è una virtù”, attaccava l’istituzione scolastica dell’epoca, quella dei presidi democristiani (definiti fascisti) che imponevano il rispetto delle regole e delle insegnanti che bocciavano gli alunni (come la malcapitata professoressa oggetto della famigerata lettera), tutto ciò che in qualche modo era visto come simbolo di un ordine costituito da abbattere. E’ stata proprio la sinistra, con il concorso dei cosiddetti catto-comunisti a tenere in vita e ad alimentare il culto e il mito del priore di Barbiana, quasi con l’obiettivo di una beatificazione laica in grado di sopperire il rigetto della Chiesa verso questo suo figlio che non fu mai in verità rifiutato, ma che fece di tutto per mettersi fuori da solo.

Fonte:

Di BasNews

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