di Aldo Di Lello

A Luigi Di Maio non manca davvero il senso dell’(involontario) umorismo. L’ultima dimostrazione ce l’ha data sul salario minimo, definendo «storico» l’accordo Ue tra Parlamento, Consiglio e Commissione sull’ equa “retribuzione dei lavoratori”.

Che cosa ci sia di “storico” in questa intesa europea è un mistero che solo il ministro degli Esteri ci può chiarire, anche perché, una volta che sarà approvata dall’assemblea di Strasburgo, la bozza sul salario minimo non obbliga automaticamente l’Italia ad adeguarsi alla direttiva.

Ma il vero problema sta nella sostanza. E questo per il semplicissimo motivo che l’equità del salario non la si stabilisce per legge, ma attraverso la contrattazione collettiva tra sindacati e rappresentanti degli imprenditori. E poi, come ha detto Giorgetti, si rischia, in qualche caso, di andare contro i lavoratori stessi. Molti datori di lavoro potrebbero essere indotti ad aumentare la paga oraria diminuendo però l’orario. E il lavoratore starebbe come prima. Con la differenza che l’impresa avrebbe qualche problema in più a far quadrare i conti.

In qualche settore, i lavoratori deboli potrebbero, sì, essere aiutati, ma saremmo comunque lontani da numeri significativi. Nulla che potrebbe in ogni caso autorizzare nessuno a parlare di svolte “storiche”.

Perché allora Di Maio esulta? Perché tanta ingiustificata (e grottesca) enfasi? Per due motivi. Primo perché la direttiva Ue rappresenta un assist propagandistico per i pentastellati, che da tempo hanno fatto del salario minimo una loro battaglia di bandiera. Secondo perché l’equa retribuzione permette a M5S e a Pd di rinsaldare la loro alleanza, messa in crisi dalla divergenza di opinioni sull’invio di armi all’Ucraina. Tant’è che il ministro del Lavoro, Andrea Orlando (Pd, per chi non lo sapesse) ha preso subito la palla al balzo, annunciando che promuoverà al più presto un «intervento sul lavoro povero».

E va anche considerato che l’espressione “salario minimo” sa tanto di sinistra, quanto di meglio per smussare gli angoli all’interno del “campo largo”, in vista delle prossime elezioni politiche.

Al dunque, questa direttiva europea è come il cacio sui maccheroni per due partiti che sono “costretti” ad essere alleati. La comune battaglia per l’equa retribuzione li agevola nel compito di presentarsi all’elettorato con un minimo di unità politico-culturale, un’unità che in realtà non ci sarebbe per nulla, almeno sulla base delle rispettive storie e vocazioni.

Contenti loro, meno contenti i lavoratori. Perché il problema dei bassi salari italiani, rispetto alla media europea, certamente esiste, ma ha bisogno di politiche adeguate, non certo di “magie” propagandistiche. Non guardiamo solo al “lavoro povero”, ma al lavoro in quanto tale. Il fatto che questo lavoro sia, da noi, meno retribuito che altrove dipende innanzi tutto dal fatto che la produttività media è cresciuta negli ultimi anni in Italia meno che negli altri, principali Paesi europei. E se non è cresciuta, non è stato perché i lavoratori italiani si impegnino meno degli altri, ma perché gli investimenti tecnologici sono stati insufficienti. Perché tante imprese, per fare profitto, hanno preferito risparmiare sui costi, a partire da quello del lavoro, piuttosto che allargare l’attività. Perché la formazione professionale è al di sotto degli standard europei. Perché il sistema burocratico amministrativo è anchilosato. Perché le infrastrutture sono vecchie.

Detto in sintesi: la produttività e, quindi i salari, sono bassi perché l’Italia è ferma.  Altro che salario minimo, qui di minimo c’è solo l’impegno della politica a pensare un altro Paese possibile.

Fonte:

Di BasNews

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