di lorenzo merlo
Emozioni e sentimenti non stanno sul vetrino dei microscopi.
La scienza ha detto che l’universo è grande 12 miliardi di anni luce. Mi ricordo benissino, ero un bambino che non si lasciava sfuggire le caratteristiche del piumaggio del pappagallo Ara, e sapeva disegnare benissimo un atomo, con tanto di orbite degli elettroni e dei protoni.
Come me ci credevano tutti. Chi mai avrebbe messo in dubbio quello che diceva la scienza, la sola autorizzata a pronunciare il vero, l’unico giudice autentico in grado di definire ciò che conta e non conta.
Oggi, ce lo dice la scienza, l’universo è grande 92 miliardi di anni luce, domani non si sa. In ogni caso sia ieri che adesso c’è una moltitudine a mettere la mano sul fuoco che della scienza ci si può fidare. Oggi però si sa che il disegnino dell’atomo con le sue orbite è fuffa. Ma guai a dirlo a uno scienziato o a un bambino che ci crede ancora perché l’ha detto la scienza.
E fino ad oggi, anzi fino a poco fa, la scienza ha provato in tutti i modi a sostenere il caso, la materia come sola natura del cosmo, il principio di causa-effetto e quelli della logica aristotelica. Niente di male, anzi di utile, nel limitato contesto meccanicistico, ma straordinariamente grave e fuorviante, perfino disumano, quando totalitaristicamente applicato a tutto lo scibile infinito. Cioè quando lo si vuole comprimere e ridurre, per costringerlo nella piccola scatoletta della fisica classica.
Fino a poco fa significa fino a circa 100 anni fa. È intorno a quel periodo e poi, in crescendo, nei decenni a venire, che gli scienziati quelli veri, non gli scientisti, gente idolatrica e dogmatica, hanno iniziato ad ammettere che giocare tra loro con il rimpiattino della materia non permetteva di far quadrare i conti della ricerca. Ovvero le domande ultime non trovavano risposta dentro le regole autoreferenziali che si erano inventati. Se solo avessero dato un’occhiata alla ricerca esistenziale sviluppata da tutte le culture del mondo prescientifico, forse molti più uomini si sarebbero salvati dalla voragine nera del mondo esaurito nella materia.
Gli antichi prescientifici – ma sarebbe opportuno chiamarli prepositivisti – quegli stupidi che, invece di analizzare contemplavano, invece di smembrare ascoltavano, invece di credersi potenti, sentivano la potenza del mondo dicevano cose valide ancora oggi. Le stesse che, sebbene in forma differente, dicono tutte le ricerche sapienziali del mondo, disponibili ad ogni uomo identiche, in tutti i tempi. Ma noi, la nostra cultura, positivista e dualista invece li deride. Noi che ad ogni passo rinneghiamo quanto detto e lo sostituiamo con altro, senza però mai rinunciare al gingle con cui ci ripetiamo di essere nella verità. Noi diciamo cose usa e getta che durano il tempo di una stagione, o di un vezzo, che il digitale comprimerà e modificherà ancor più velocemente, secondo leggi che con la natura non nulla a che vedere. Sempre per chi non guardi il dito delle forme e sia cieco alla luna della sostanza.
“L’idea che colui che pensa (l’io) sia almeno in linea di principio completamente separato e indipendente dalla realtà a cui pensa è saldamente radicata in tutta la nostra tradizione”.
Bohm, D., (1996). Universo Mente Materia: L’ordine sottostante al caos nella fisica moderna. Como: Red Studio Redazionale, p. 24.
Come ciarlatani di migliaia di anni fa, vestiti di niente, senza neanche, non dico un microscopio ottico, ma neppure una pinzetta di legno, ora – da poco per certi scienziati – la materia non è che una condensazione di energia. Anche la scienza è arrivata a ipotizzare-riconoscere che tutto è energia, che distinguere mente e materia ha del ridicolo, che il mondo duale, quello che separa l’osservatore dall’osservato è roba da tornare a settembre, anzi, forse, da ripetere l’anno, da ricominciare daccapo.
Il binomio mente-materia ha da essere rivisto. Esso è una diade buona per esprimere, con un linguaggio inappropriato in quanto logico-analitico, l’intero. Non a caso qualcuno ha detto che l’uomo stupido la prima volta che sente parlare del Tao, se la ride.
Nonostante i vanti della scienza meccanicista, la scomposizione del mondo non permette di conoscerlo. È un’illusione a base arroganza-ingenuità, credere che lo studio di un’unghia separata dal suo ambiente di creazione, sia ancora un’unghia e dica qualcosa che vada oltre alla sua forma.
Eppure la cultura disastrosa in cui siamo immersi ce lo conferma ogni giorno, ce ne dà presunta prova, ce lo inculca. Il risultato è alla mercé di chiunque: come giudicare questa cultura materialista, che ha ridotto l’uomo a un’ombra di se stesso, che ne ha fatto un replicante, da creatore che era, che in 300 anni di sviluppo – così lo chiamano tutti – ci ha portati a vivere in uno stato di paura, di schiavitù, di perdita della memoria della bellezza.
«Anche nell’antichità esistevano due definizioni di bellezza che in qualche modo si trovavano in opposizione reciproca. […] L’una descriveva la bellezza come la giusta conformità delle parti tra loro e di esse col tutto. L’altra, derivata da Plotino, descriveva la bellezza senza alcun riferimento alle parti, come il trasparire dell’eterno splendore dell’”uno” attraverso il fenomeno materia».
Wilber, K., (2022). Questioni quantistiche: Scritti mistici dei più grandi fisici del mondo. Roma: Spazio Interiore, p. 106.
I saperi analitici, o superficiali, la materia e le sue forme sono un espediente necessario alla storia e al sociale, cioè all’organizzazione della vita quotidiana, ma – se ci si dedica ad esse – sono fuorvianti nei confronti della conoscenza del mondo. Esse impediscono di riconoscere l’intero, di osservare le identicità in ciò che è formalmente differente; non sono in grado di intelligere i simboli, né gli arcani. Esse funzionano per catalogarlo razionalmente ma sono disastrose quando, in quel modo, crediamo di conoscere noi stessi, il mondo e gli altri.
La loro epopea ci ha allontanato – oggi come non mai – invece di condurci a noi stessi. Gli uomini oggi, più che mai, si credono entità autonome e utilizzano i diritti autoreferenziali del loro ego per farsi condurre nella vita. Gente sacrilega, la cui opera prima non è il piacere che vogliono prodursi, qualunque siano gli scarti che quest’intento comporti, ma l’humus di disperazione che ne resta. Lo si vede in campo civile, militare, psicologico, educativo, sociale, politico.
Chiunque di noi sapendo di vivere per un solo istante sceglierebbe di consumarlo nella serenità, eppure istante dopo istante, non facciamo altro che perpetrare le condizioni per bruciarlo nella pena.
In questo precipitare secondo denaro e potere, dalla scienza arrivano segni confortanti. Semi che forse non possono ancora fiorire in questo terreno terribilmente inquinato di bugie e strade senza un cuore. Per la fioritura, o la diffusa consapevolezza, servirà atterrare catastroficamente in fondo alla voragine nera. Sarà forse da quello stato di collasso materialista che potrà nascere una cultura idonea a riconoscere e diffondere il messaggio che siamo noi a fare il mondo, le malattie, il benessere, la gioia e il dolore. A formare uomini compiuti, ovvero in grado di riconoscere di avere in sé la responsabilità di tutto e con essa, la forza creatrice che oggi non sospetta di avere in sé, di essere, tanto da chiamarla utopia, tanto da stare buono nel suo angolino, a replicare quello che ha imparato sul sussidiario.
Gautama e altri ce lo avevano detto, ma l’orecchio sordo degli invasati scienziati scientisti aveva riso anche in quell’occasione.
Ora non ridono più. Prestano ascolto a Higgs e al suo bosone, alla considerazione che sia lui il catalizzatore, il reagente, il coagulante dell’energia affinché questa si mostri come materia. E che differenza fa con le emozioni? Non sono queste a farci muovere come se di tutto l’infinito non ci fosse altro, oltre a quanto esse ci impongono di vedere? Non sono i legami dei sentimenti che se la ridono della materia e della distanza?