“La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori, dalle Alpi all’oceano indiano: vincere! E vinceremo!” Così la dichiarazione di guerra di Benito Mussolini. “Non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra, o per l’Ue sarà la fine”. Così Mario Draghi al Mit di Boston.

Certo, l’ex premier italiano ha modulato in maniera diversa il suo enfatico dire, modulato sui fondamenti del Credo dei neocon americani (1), spiegando che vincere è necessario a respingere l’aggressione russa e per difendere la democrazia europea, ma, appunto, è solo una diversa formulazione.

“L’Italia ripudia la guerra come […] mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, recita l’articolo 11 della Costituzione, ma ormai la Costituzione, per quanto riguarda la guerra ucraina, è andata in cavalleria, avendo subito interpretazioni surreali. La guerra durerà tempo, secondo Draghi, per cui occorrerà preparare gli Stati e i popoli a quanto essa richiederà.

L’ex banchiere, prospettano alcuni media italiani, si prepara a nuovi incarichi (italiani o internazionali) dopo la breve pausa che l’ha tenuto lontano dall’agone politico. E il discorso di ieri appare un passo propedeutico ai nuovi orizzonti.

Rasmussen e la riedizione della coalizione di volenterosi

Al di là del destino del banchiere di rito neocon, appare di interesse notare che il discorso di Draghi arriva in concomitanza con l’inquietante intervento dell’ex Segretario Nato Anders Rasmussen, che in questi tempi ha affiancato Zelensky in qualità di consigliere presidenziale (incarico passato in sordina perché è alquanto inquietante che un ex Comandante Nato sia parte attiva in una guerra contro la Russia, ma tant’è).

Il suo intervento è stato sintetizzato dal Guardian in questo modo: “Un gruppo di paesi della Nato potrebbe essere disposto a schierare truppe sul terreno in Ucraina se gli Stati membri, tra cui gli Stati Uniti, non forniranno tangibili garanzie di sicurezza a Kiev al vertice dell’Alleanza che si terrà a Vilnius”.

Le nazioni che secondo Rasmussen sarebbero pronte a inviare truppe in ucraina sarebbero la Polonia e i Paesi baltici. Da notare che l’intervento in Ucraina di una “coalizione di volenterosi”, simile a quella formatasi per l’invasione irachena, era stata a suo tempo caldeggiata dal generale David Petraeus, protagonista di primo piano della stagione delle guerre infinite made in Usa (a proposito di democrazia, alla quale si addicono le bombe).

Certo, l’ipotesi di Rasmussen è più raffinata per renderla più accettabile, perché a differenza di Petraeus, prospetta che tale forza abbia uno scopo difensivo e non sia guidata dagli Stati Uniti.

Da cui un disimpegno di Washington, che osserverebbe da oltreatlantico quella che andrebbe a configurarsi come una guerra europea su grande scala, dal momento che le altre nazioni europee non potrebbero non supportare a loro volta il contingente di Paesi Nato schierato in Ucraina qualora, come potrebbe facilmente accadere, ingaggiasse battaglia contro le forze russe.

Allargare la guerra

Resta da capire perché questa drammatizzazione proprio adesso. Perché, cioè, la Nato e i falchi Usa stiano spingendo oltremodo per ampliare un conflitto che finora è rimasto entro limiti a rischio, ma con rischi ancora gestibili e con residui margini per soluzioni negoziali.

Il punto è che temono, con qualche ragione, che la controffensiva ucraina non conseguirà il successo prospettato per mesi. La finzione tenuta in piedi finora, di una vittoria ucraina sul campo di battaglia, non reggerà alla dura realtà. Né riuscirà a erodere le risorse di Mosca in modo tale da “indebolire” la Russia in maniera significativa sul piano internazionale, come da auspici del Segretario della Difesa Usa Lloyd Austin.

La mancata vittoria sarà percepita, a ragione, come uno scacco dei falchi, che per un anno e mezzo hanno insistito sull’invio di armi sempre più potenti a Kiev e a negare possibilità al negoziato (la pace, sotto qualsiasi forma, è qualcosa di esecrando agli occhi, qualcosa di totalmente oppositivo alla guerra infinita alla quale sono consegnati).

Non è la prima volta che tali ambiti subiscono uno smacco – basti pensare all’Iraq e all’Afghanistan – ma subire una sconfitta per mani russe avrebbe un significato epocale. Così devono trovare una via di uscita dal vicolo cieco nel quale si sono cacciati, trascinando con loro l’intero Occidente.

Riportiamo da South Front: “L’attuale strategia riguardo Kiev si basa sulla speranza che la Russia esaurisca il suo potenziale militare più velocemente di quanto avverrà per la macchina militare collettiva della NATO. Questa idea sembra ragionevole solo se la NATO decide di entrare direttamente in guerra con la Russia. In questo momento il flusso di armi NATO viene semplicemente e stupidamente distrutto al fronte, senza alcun esito”. E con esse, anche l’esercito ucraino, che viene degradato giorno dopo giorno, e alla lunga non avrà più la capacità neanche di tenere il fronte.

(1) Va ricordato quando, in un intervento al Parlamento italiano, Draghi volle rendere un inusitato omaggio a Robert Kagan, ignoto ai più ma figlio di Donald, il fondatore del movimento neocon. Robert è il marito di Victoria Nuland, protagonista assoluta del colpo di stato di Maidan del 2014, e figura chiave dei circoli che stanno alimentando il conflitto ucraino (su Robert Kagan vedi Piccolenote, mentre per quanto riguarda gli stretti rapporti tra Frederick Kagan – figlio di Donald e fratello di Robert – e la moglie Kimberly con il generale Petraues rimandiamo al Washington Post. Tutto in famiglia…).

Fonte:

Di BasNews

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