Salvatore A. Bravo
Le Olimpiadi di Parigi ci stanno palesando la verità del nostro tempo, in cui tutto è all’insegna dello smisurato e della società dello spettacolo, ciò malgrado la verità la si può celare, ma essa prepotentemente riemerge e ci invoca ad essere “partigiani del crudo vero”. Le cronache, dietro lo scintillio della grandeur, ci restituiscono le denunce dei cittadini parigini dei quartieri periferici, la cui riqualificazione olimpionica ha comportato la loro espulsione, poiché le nuove costruzioni sono vendute a prezzi esorbitanti. Per realizzare nelle banlieue nord il villaggio olimpico sono stati eseguiti “sfratti e allontanamenti”. Negli anni che hanno preceduto le Olimpiadi le manifestazioni e le proteste sono state innumerevoli, ma tutto è caduto nel silenzio. Nulla doveva turbare la logica degli affari. Gli sfrattati non ritorneranno nei loro quartieri, le case sono in vendita a circa 7000 euro al mq. Il nuovo villaggio olimpico con i suoi servizi e con le case green sarà a disposizione non certo dei ceti popolari ma di una nuova tipologia di residenti rigorosamente benestanti[1]. Ancora una volta assistiamo al “razzismo senza razza” ciò che conta è il denaro, per cui i perdenti della globalizzazione sono destinati a spostamenti esterni senza prospettiva. Le chiamano nel nuovo linguaggio orwelliano: riqualificazioni del territorio.
Le Olimpiadi sono l’espressione “giocosa” del capitalismo dell’esclusione che utilizza l’inclusione come slogan per velare la crematistica degli affari e l’ideologia laicista. Il comitato d’affari, dunque, ridisegna Parigi in nome della transizione economica e sociale ora denominata transizione green.
La relazione tra le Olimpiadi dell’antica Grecia e il “fenomeno sportivo parigino” semplicemente non c’è. Si dovrebbe cambiare il nome alla manifestazione in modo che il pubblico non la associ alle antiche Olimpiadi durante le quali i conflitti erano sospesi. Le Olimpiadi del nostro tempo con l’esclusione di atleti che non hanno colpa alcuna delle guerre in corso confermano la loro natura divisoria e antisportiva. I cinque cerchi che si intrecciano sono il simbolo delle Olimpiadi, rappresentano la fratellanza, mai sono stati tanto smentiti.
L’etica delle Olimpiadi dovrebbe unire, qui invece si lavora per dividere e si educano gli spettatori a percepire i popoli esclusi come nemici. Affari e cattiva politica in concerto lavorano per addestrare alla logica del nemico e del privilegio di classe. Il nuovo oppio con cui i popoli e i perdenti devono consolarsi è lo spettacolo luccicante nel quale lo sport è solo manifestazione complementare. Il motto che ben si addice a tale condizione è l’antico:
“Panem et circenses”
In realtà di pane ce n’è molto poco, direi quasi nulla per i subalterni. In questo clima di idolatria della vittoria dalla quale dipende la stima degli atleti e delle nazioni che concorrono, non meraviglia la reazione della judoka giapponese Uta Aba che sconfitta agli ottavi di finale è stata presa da una crisi di pianto e portata via dal suo allenatore. Le Olimpiadi potrebbero essere occasione per educare ad accettare le sconfitte, poiché la grandezza di un atleta è nella capacità di affrontare le difficoltà e i disincanti. L’essere umano forma il suo carattere etico nella capacità di accettare sfide che possono comportare la sconfitta e l’atleta dovrebbe incarnare tale modello. Nello stile con cui si vince o si perde è manifesto non solo il valore del singolo soggetto, ma attraverso di esso è un’intera civiltà che parla di sé e palesa il suo livello di “maturità” non solo etica ma anche estetica. L’atleta che perde e sorride orgoglioso della sua lotta e del suo agone è bello di una bellezza profonda che suscita ammirazione ed emulazione. La grandezza di un essere umano è in questa testimonianza etica e tutti, adulti e giovani, necessitiamo di modelli di tal genere. Si assiste invece ad altro, in quanto il clima competitivo e le pressioni non possono che caricare gli atleti di aspettative poco olimpioniche. Ancora una volta manca il “senso”, perché tutto è consegnato al capitale che cannibalizza l’eccellenza umana.
Per valutare le Olimpiadi in corso e quelle che verranno, abbiamo bisogno di punti di riferimento per un’equa e critica valutazione, pertanto volgiamo lo sguardo verso l’antica Grecia per capire il nostro tempo. Ancora una volta senza la cultura classica siamo preda di messaggi che non riusciamo a decodificare; la conseguenza è la passività afona e adattiva verso eventi che se pensati ci svelano il tragico in cui siamo. Solo se volgiamo lo sguardo al passato possiamo ritrovare il presente trasformandolo in concetto, in tal modo ci accomiatiamo dalla hybris del nostro tempo, in cui la sconfitta è vissuta come una vergogna. Per decriptare la società dello spettacolo la cultura classica è fondamentale, per questo uno degli obiettivi in difesa della democrazia dovrebbe essere la sua estensione in ogni scuola, affinché tutti possano acquisire contenuti e metodi con cui ricostruire le nostre macerie, in questa maniera riusciremo a recuperare il “senso etico” dello sport e a farne la cifra positiva attraverso cui educare l’anima e il corpo. Atleti ridotti a corpi in competizione non hanno gli strumenti emotivi e culturali per capire che la sconfitta per quanto spiacevole è il “momento fatale”, in cui si comprendono di sé fragilità, errori e punti di forza. La sconfitta è il momento, in cui si mostra a sé e al mondo che un essere umano è grande per il modo in cui vive la sconfitta ma anche la vittoria. In tali momenti fatali si diventa “un segno” che può incidere positivamente nelle relazioni umane. I popoli educati all’etica della vita non possono che provare per gli sconfitti che cadono e si rialzano una ammirazione maggiore rispetto a quella tributata ai vincenti. Senza piccoli e grandi eroi che traggono da noi tutti il meglio che potenzialmente riposa in ogni essere umano nessuno può crescere, per cui dobbiamo dirlo con forza, abbiamo bisogno di altre Olimpiadi, in cui il vero protagonista è semplicemente lo sport che educa e ci migliora come esseri umani. Abbiamo il compito di trascendere la banalizzazione di ogni esperienza con la sua mercificazione, anche lo sport dev’essere liberato dalla trappola del successo a tutti i costi e degli affari che ne mortificano la sua autentica finalità oggettiva: la crescita qualitativa degli esseri umani.
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