Maria Grazia Cutuli è stata uccisa 20 anni fa il 19 novembre in Afghanistan. Ero lì. In molti mi chiedono un ricordo, eccolo. Mi chiedete una testimonianza su quei giorni e un ricordo di Maria Grazia Cutuli, uccisa al passo di Sarubi in Afghanistan il 19 novembre 2001. Per me è quasi impossibile parlarne al passato perché la sua immagine, le sue parole, i discorsi che facevamo su ogni argomento, sono davanti a me, ogni giorno della mia vita. Viaggio ancora con lei, con la sua voce, le sue risate ironiche.

Per questo il ricordo non sfuma mai nella nebbia della memoria ma è sempre vivo, fa parte di me. L’unica differenza tra ieri e oggi è che, per caso, io sono rimasto materialmente vivo. Maria Grazia continua a vivere con me, ogni giorno.

Volete giustamente sapere come fosse Maria Grazia in quelle giornate del novembre 2001. Potrei dire che era felice perché stava facendo la cosa che amava di più: il mestiere di giornalista, di inviato, in un Paese, l’Afghanistan, da cui era sempre stata affascinata, che la commuoveva, la rapiva con i suoi paesaggi, la sua gente e, soprattutto, con le sue immense ferite. Kabul sopra ogni cosa: questa città distrutta, crivellata dai proiettili, circondata dalle montagne, da un cielo di un blu sconvolgente, di una bellezza scavata dal dolore come il volto di un essere umano, esercitava su Maria Grazia un’attrazione magnetica. Kabul era una parte della sua autobiografia, la storia di una città diventava quella di un’anima.

Kabul era la sua città e non avrebbe mai potuto rinunciarci. Sarebbe stata lì anche questa ultima estate, quando gli americani si sono ritirati. Per questo Maria Grazia allora non si fermò a Jalalabad dove con Julio Fuentes e altri colleghi eravamo arrivati di notte, quando i mujaheddin la liberarono dai talebani.

Alloggiammo qualche giorno nell’unico albergo della città, malandato e intasato di guerriglieri che alla sera si accampavano fumando hashish: non c’era posto, dormivamo uno sull’altro, quindi ospitai Maria Grazia nella mia camera dove stava anche Fuad, il mio interprete. Per due giorni non ci parlammo. Tentai di convincerla a non venire a Kabul: il suo giornale, il Corriere della Sera, aveva già altri inviati sul posto. Era inutile rischiare, dicevo. La discussione, iniziata qualche settimana prima in Pakistan, si risolse, come altre in passato, in un litigio fatto di silenzi. Credo, forse in tutta la mia vita, di non avere mai parlato e discusso tanto con una persona come con Maria Grazia. Ma sapevo in cuor mio che su Kabul era inutile discutere.

La mattina che partii per Kabul venne a salutarmi. Lei, per il momento, restava a Jalalabad. Non ci furono parole, ci guardammo e basta. Penso di sapere cosa esprimesse il suo sguardo: la voglia irrefrenabile di venire con noi, di raggiungere la sua amata città. Andavo verso la sua meta prediletta, in quel momento stavo togliendole il piacere di qualche cosa che le apparteneva profondamente e in modo quasi esclusivo. Capivo che il suo viaggio era soltanto rinviato, che avrebbe comunque tentato di affrontare una strada rischiosa per raggiungere Kabul. Mi illudevo soltanto che forse la compagnia di Julio e degli altri colleghi l’avrebbe trattenuta a Jalalabad.

Se avete avuto una famiglia o degli amici credo che possiate capire. Quella degli inviati era, è, la nostra famiglia. Quella che ci siamo scelti, che abbiamo voluto. E a tavola, la sera, per parlare di Baghdad, Beirut, Teheran, Mogadiscio, mancano sempre più persone, come Maria Grazia, Raffaele Ciriello, Antonio Russo e Ilaria Alpi. Per ridere, scherzare, prenderci in giro, ma anche discutere ferocemente, fino ad accapigliarsi. Continuo il mestiere soltanto per allontanare la stagione dei ricordi labili e imprecisi che avrò tra qualche anno.

Questa è una delle rare volte che in pubblico parlo di Maria Grazia. Forse anche l’ultima. Come di tante altre persone e cose di cui non ho più voglia di parlare. Mi alleno al silenzio che cadrà. Non pensate che sia triste. Sono tristi coloro che hanno visto i loro compagni di viaggio sbagliare strada. Maria Grazia è sempre in viaggio verso Kabul, sulla strada giusta.

Alberto Negri

Nasce a Milano nel 1956. E’ giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all’Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) 

Fonte: www.lantidiplomatico.it/

Di BasNews

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