Della musica di John Coltrane si è soliti sottolineare la sospesa, fiabesca eleganza. Eppure, se questa può considerarsi una componente fondamentale di brani come “My favourite things” o “Naima”, altrove il musicista sembra essere interessato al racconto di altro. Spesso si dimentica infatti che nella carriera di qualsiasi artista possono trovarsi espresse anime differenti e talvolta contrastanti, sebbene soprattutto presso il grande pubblico quello scrittore o quel pittore sia sinonimo di una sola di esse.

Coltrane era nato nel 1926 ad Hamlet, nel North Carolina. A tutt’oggi è universalmente riconosciuto come colui il quale ha continuato la ricerca musicale avviata da Charlie Parker, anzi il solo che in quegli anni sia stato capace di farlo.

Pur essendosi dedicato allo studio della musica a Philadelphia, presso la Ornstein Music School, non fu subito interessato a diventare un jazzista di professione, almeno non fino al raggiungimento dei suoi trent’anni. È allora infatti che “Trane”, dopo aver suonato in gruppi R&B, incomincia ad accompagnare i cantanti che si esibivano all’Apollo Theatre.

L’incontro con Miles Davis prima, con il quale collaborerà lungamente e con Thelonious Monk poi, gli permisero di abbandonare le proprie insicurezze e di acquisire coscienza di ciò che avrebbe potuto esprimere.

Come tanti tuttavia, fu accolto da una iniziale incomprensione (durante una tournée in Europa fu addirittura fischiato) e solo in seguito si fece strada tanto nel pubblico quanto nella critica, la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un genio, sebbene la critica stessa si sia spesso divisa nella valutazione di quale fosse il reale messaggio contenuto nelle composizioni di Coltrane. Alcuni ad esempio ritengono che in esso sia assente una presa di posizione esplicita a favore della causa dei neri e che il fulcro della sua creatività risiedesse in una sorta di misticismo che avrebbe poi portato di lì a poco all’affermazione del free jazz.

Con questa parte della critica devo ammettere di non trovarmi in accordo.

Il discorso di Coltrane è complesso e consta di un numero infinito di componenti. Tra queste è a mio avviso impossibile non cogliere quella dell’adesione profonda, benché implicita, al linguaggio della sua gente. Esisteva poi un’urgenza che lo portava a ritenere prioritaria l’espressione di altre dimensioni, fino ad allora o non presenti nella realtà o non ancora rese esplicite da altri artisti. Trane sarà infatti il primo ad accogliere nei suoi lavori echi di tutto ciò che lo circondava, di quel momento gravido di cambiamenti dei quali era assolutamente conscio. Anzi, si ha con lui la sensazione che sappia chiaramente di vivere un’epoca nuova e diversa, che avrebbe potenziato massimamente le capacità esperenziali dell’uomo e che uno dei suoi propositi fosse esprimerlo nel jazz che andava creando.

E questo mi porta a chiarire quale sia a mio parere la componente di maggior peso del suo complesso ed affascinante messaggio. Trane è un essere umano ed un musicista assolutamente conscio di dover essere testimone di sé e dei suoi tempi e di dover padroneggiare alla perfezione tanto i mezzi espressivi quanto i contenuti del suo discorso. La consapevolezza di questo progetto è in lui nettissima ed evidente. John Coltrane sa che un altro uomo si sta affacciando alla storia, lo descrive con precisione maniacale, ricercata, voluta, perché avverte con forza la novità di quanto sta accadendo.

Morirà il 17 luglio del 1967 a quarant’anni, in conseguenza di una grave malattia epatica.

L’uomo che è stato capace in anticipo di vedere e di descrivere è l’uomo di oggi, la complessità della sua vita, le tante dimensioni della sua realtà e dei suoi saperi, l’individuo visto con tanta chiarezza da John Coltrane è quello ancora presente dentro ognuno di noi.

Rosamaria Fumarola

Di BasNews

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