Oggi potrebbe essere l’ultimo giorno di Gaza. Da questa consapevolezza drammatica nasce l’iniziativa “Gaza Last Day”: un grido di dolore, un appello collettivo rivolto a chiunque voglia rompere il muro di silenzio che avvolge il genocidio del popolo palestinese. Una giornata di mobilitazioni su tutto il territorio nazionale, che non a caso coincide con il 9 maggio – data solitamente dedicata alle celebrazioni per l’unificazione dell’Europa. “Parlate di Gaza, fatelo ovunque: nelle piazze, per le strade, ma anche sui siti e sui social network”, si legge sul canale ufficiale dell’iniziativa, promossa da decine di attivisti del mondo artistico e intellettuale. Un invito semplice, ma solo in apparenza. Perché mentre la Striscia muore sotto i bombardamenti israeliani, stretta nella morsa della fame e della sete, l’attenzione mediatica europea, Italia compresa, continua a ignorare sistematicamente il massacro in corso.
Il silenzio dell’Europa
Un silenzio che riflette con precisione la postura diplomatica dell’Unione Europea, sempre più distante dalla causa palestinese e priva di un reale impegno verso la giustizia e la pace. A partire dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von Der Leyen, che, al di là di flebili dichiarazioni, è invece prontamente intervenuta nel dichiarare “di sostenere la lotta contro gli incendi in Israele, attivando il Meccanismo europeo di Protezione civile”. Una tempestiva solidarietà che stride, e non poco, con l’assoluto immobilismo nei confronti di chi, chiuso nell’enclave palestinese, sta morendo ogni giorno da 19 mesi a questa parte. L’ora pù buia di Gaza
La situazione nella Striscia ha raggiunto livelli catastrofici. Da quando Israele ha interrotto la fragile tregua, lo scorso 18 marzo, la mattanza è proseguita a ritmo incessante: almeno 2.545 palestinesi sono stati uccisi e oltre 7mila feriti. Nella sola giornata di ieri sono state uccise almeno 106 persone, mentre martedì scorso, riporta Haaretz, “Israele ha compiuto l’ennesimo massacro di bambini”. L’aeronautica dell’Idf ha ucciso nove bambini, di età compresa tra i 3 e i 14 anni, mentre si trovavano all’interno di quella che un tempo era una scuola di al-Bureij, e che oggi tentava di offrire riparo agli sfollati. La risposta dell’esercito israeliano è sempre la stessa, che si ripete ossessivamente da 19 mesi: l’edificio bombardato era “un obiettivo militare in quanto centro di comando di Hamas. Sono state adottate misure per limitare il rischio di danneggiare i civili non coinvolti”. Tant’è che nell’attacco sono stati uccisi 9 bambini e 4 donne, su un totale di 32 vittime.Persone, non numeri, che si sommano alle oltre 100mila vite spazzate via dal 7 ottobre 2023, secondo stime riportate da fonti autorevoli come The Lancet.
Insomma, mentre nei salotti televisivi europei si discute se sia lecito o meno definire “genocidio” ciò che sta accadendo a Gaza, nella Striscia si continua a morire senza tregua. E quando non sono le bombe a spezzare le vite, ci pensa la carestia deliberatamente indotta: da oltre 65 giorni Israele ha imposto un blocco totale all’ingresso degli aiuti umanitari.
“Ignorare quel che accade, non cambia la realtà delle cose”
Nel desolante panorama mediatico, spesso colpevole di ignavia, risplende il coraggioso lavoro di chi ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. Scrive Haaretz: “Gli israeliani possono continuare a distogliere lo sguardo da qualsiasi documentazione che li porti faccia a faccia con le immagini del massacro a Gaza. I media possono continuare a rinunciare al loro dovere e non esporre gli israeliani a ciò che viene fatto in loro nome e per mano dei loro figli. Possiamo continuare a ignorare il numero di palestinesi nella Striscia che sono stati uccisi, a sindacare sulla credibilità delle cifre. Ma questo non cambia la realtà delle cose: Israele li ha uccisi.”
Una riflessione potente e lucida, che dovrebbe estendersi anche a chi, in Italia e nel resto d’Europa, sceglie di non vedere — e dunque sceglie di non informare e di non agire.
Proprio per questo è nata l’iniziativa “L’ultimo giorno di Gaza”, affinché lo sguardo resti fisso sulla genocidio in corso e non cada nell’oblio mediatico.
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