Joe Biden è nella bufera per il ritiro da Kabul. Una campagna mediatico-politica lo sta sommergendo di critiche per aver fatto quel che i due presidenti precedenti, Obama e Trump, avevano provato a fare e non erano riusciti per il fortissimo contrasto dei neocon, che, a quanto pare, sono tornati di moda.

Una campagna martellante che non si era riscontrata quando George W. Bush aveva invaso l’Afghanistan, uccidendo, per conquistarlo, molte, moltissime persone in più di quelle uccise dai talebani per riprendere il Paese.

D’accordo, c’era l’11 settembre da vendicare, e il fatto che a cadere sotto le bombe Usa fossero civili innocenti, donne e bambini, era accantonato nella categoria dell’inevitabile.

E, però, eguale slancio pro-America si riscontrò al tempo dell’invasione dell’Iraq (tranne pochi, isolati, distinguo). E così per la guerra in Libia, che distrusse il Paese con il reddito medio più alto dell’Africa.

Si potrebbe continuare, ma bastano questi esempi per evidenziare come certe campagne siano funzionali a certo potere. Un potere che sta facendo di tutto per dire al mondo che porre fine all’intervento dell’Afghanistan è stato un errore.

E ciò non solo per creare criticità nei confronti del nuovo potere afghano, ma soprattutto per ammonire Biden a non ripetersi. È ovvio, infatti, che questa mossa apre prospettive nuove per l’occupazione americana della Siria, altro lascito delle guerre infinite, alla quale già Trump aveva detto di voler porre fine.

Dopo la tempesta che si è abbattuta sulla Casa Bianca col ritiro dell’Afghanistan per Biden sarà arduo ripetersi.

E tutto questo pone criticità al ritiro dall’Iraq, che gli Stati Uniti occupano dal 2003, diciotto anni oramai: uno scenario che Biden sta esaminando e trattando sottotraccia con le autorità di Baghdad, le quali, per vie democratiche, cioè con voto unanime del Parlamento, hanno già detto agli Usa di andarsene.

Non solo, tale campagna mira anche a porre criticità all’accordo sul nucleare iraniano, le cui trattative dovrebbero riaprirsi a breve: se prima di tale campagna il contrasto era forte, oggi è diventato fortissimo.

Un eventuale accordo con Teheran, infatti, verrebbe presentato al mondo come un ulteriore cedimento della Casa Bianca al fondamentalismo islamico, in questo caso di marca sciita.

Insomma, si parla del destino del popolo afghano, dei talebani, delle donne afghane, ma gli obiettivi sono altri: conservare l’Iraq in uno status di vassallaggio; impedire che Damasco torni a essere uno Stato vero, dato che gli Usa ne occupano un terzo del territorio e i terroristi di al Qaeda una regione strategica, Idlib, con l’esplicito favore americano; infine impedire che Teheran, grazie all’accordo con gli Usa, si liberino dalla stretta delle sanzioni, nella speranza di un suo collasso.

Peraltro, il destino degli afghani sotto il dominio talebano non sarà certo peggiore di quello in cui versano gli yemeniti, che da anni sono flagellati dalle bombe saudite, in una guerra feroce e senza quartiere che ha ucciso migliaia di bambini e alla quale sono state dedicate scarne notizie a margine, ché i sauditi non puzzano come i talebani (ma forse gli yemeniti sì).

Detto questo, il regime afghano sta tentando di accreditarsi come diverso dal passato, avendo dichiarato che alle donne non sarà richiesto di indossare l’odioso burqa, che potranno lavorare e che perdoneranno quanti, nemici del passato, chiederanno perdono.

Parole, si è detto, e forse a ragione. Ma finora non si è vista la crudeltà paventata, a parte isolati episodi di violenza che appartengono alla presa del potere.

Mentre per quanto riguarda il ruolo delle donne occorrerà fare un parallelo con quanto accade in altri Paesi arabi, dal momento che gridare allo scandalo per la discriminazione attuata dai talebani ignorando l’analoga condotta nei Paesi del Golfo sarebbe quantomeno fuorviante.

Certo, impressionano le scene agli aeroporti, le masse che accompagnano gli aerei in partenza. E rattristano il cuore. Né è di consolazione ripensare a quando le bombe Usa cadevano quotidianamente in Afghanistan, sulla testa di persone che non avevano nessuna via di fuga. Miseri gli uni, miseri gli altri.

Ma al di là, tra le tante informazioni e disinformazioni sulla situazione afghana, colpisce un’analisi di Roberto Saviano, che ha parlato su un tema sul quale si dice preparato, cioè l’oppio.

Lo scrittore denuncia come l’Afghanistan sia il più grande produttore d’oppio del mondo, esportando il 90% della produzione mondiale. E come i talebani siano preposti a tale agricoltura.

Di interesse notare la tempestività della denuncia: non risulta, infatti, che Saviano, presente da tempo su giornali e Tv, abbia mai denunciato la produzione dell’oppio afghano fino ad oggi, o almeno non in sedi autorevoli e a largo impatto sull’opinione pubblica.

Forse, magari siam maligni, perché prima in Afghanistan c’erano i fantaccini americani e lui rischiava qualche reprimenda, anche perché tali fantaccini erano spesso incaricati di vigilare sui papaveri.

D’altronde la produzione d’oppio in grande stile, atta a rifornire il narcotraffico internazionale, era nata all’ombra di un’altra guerra americana, con il Triangolo d’oro (1) fiorito di papaveri in parallelo al conflitto del Vietnam.

Ma, al di là delle guerre e dei papaveri, la ricostruzione di Saviano sull’oppio afghano ha un problema da risolvere, ed è la scomparsa dell’oppio nel 2001, sotto il regime talebano.

Saviano, come avviene per ricostruzioni analoghe, glissa sul particolare, spiegando che i talebani hanno “finto” di contrastare tale coltivazione.

Forse è vero, ma forse anche no. Nessuno può dare certezze in proposito, dato che, se fosse stata tutta una finzione, il regime talebano avrebbe dovuto interrompere la sua linea politica. Ma non è durato abbastanza per fare scelte in proposito, a causa dell’invasione del 2001.

E, però, forse a dire che essi erano davvero intenzionati a eradicare l’oppio è quanto avvenuto negli anni precedenti. Infatti, l’estirpazione dei papaveri non è un accidente verificatosi nel 2001, ma è l’esito di una politica che durava da anni.

In una nota abbiamo rimandato a un articolo nel quale si dettagliava tutto ciò. Ne riferiamo più estesamente in questa sede, riproponendo passi dall’articolo, che riferiva il contenuto di un documento dell’UN-Odccp (United Nations office for drug control e crime prevention).

«Nel settembre del 1999 i talebani pubblicano un decreto che ingiunge a tutti i produttori di papaveri di ridurre di un terzo la superficie delle colture». Tale divieto si inasprisce nel corso dell’anno successivo, allorché, il «27 luglio 2000, i dirigenti supremi dei talebani interdicono totalmente, attraverso un altro decreto, la coltivazione di papavero da oppio».

Prosegue la relazione: «Il Pnucid [Programma delle Nazioni Unite per il controllo internazionale delle droghe, ndr] conduce, nei mesi seguenti, uno studio esaustivo prodotto su 10.030 villaggi. La superficie delle terre coltivate a papavero da oppio era diminuita del 91%, passando dagli 82.172 ettari del 2000 ai 7.606 ettari nel 2001 […] la produzione di oppio regredisce del 94%, passando da 3.276 tonnellate del 2000 a 185 tonnellate nel 2001. Era tornata ai livelli registrati 20 anni addietro, agli inizi degli anni Ottanta».

Tutto ciò rende un po’ difficile credere che quella dei talebani fosse una finzione. Detto questo, tale finzione avrebbe potuto essere almeno ripetuta durante la lunga occupazione americana.

Venti anni è durata, e in questi anni non risulta un solo decreto del governo fantoccio instaurato dagli Usa che vietasse, o almeno limitasse, tale coltivazione, che anzi era ben vigilata dalle truppe Usa e internazionali. Bizzarrie oppiacee.

(1) Il Triangolo d’oro è un’aerea che comprende territori del Myanmar, del Laos e della Thailandia.

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