Freud ha descritto a pieno la pericolosità dei retropensieri che spesso emergono a gridare la verità al posto del reticente soggetto. È successo a George Galloway, mediocrissimo scrittore inglese, più volte deputato e l’anno scorso eletto sconfiggendo i laburisti in uno dei loro collegi più forti, Rochdale, a nord di Manchester, con il suo Partito dei lavoratori e diventando perciò un personaggio mediatico di rilievo nel panorama del discorso pubblico britannico. Tanto più che la sua vittoria a sorpresa è maturata in un contesto di follia: il candidato del Labour si era dovuto ritirare in seguito alle critiche mosse al governo israeliano, cosa che tout court viene considerato antisemitismo.
Già questa sarebbe una bella storia, sulla quale costruire un ritratto della sedicente sinistra contemporanea, il cui autoritratto sembra sfidare il tempo, ma la cui realtà è pieno di orribili rughe, come in un ritratto di Dorian Gray invertito. Tuttavia la cosa sorprendente e curiosa è che dopo gli attacchi Nato agli aeroporti russi che hanno distrutto due Tupolev 95 e ne hanno danneggiati altri tre, Galloway, insieme a molti altri, ha parlato di una Pearl Harbour russa, paragone davvero esagerato per la perdita di qualche aereo anche se facente parte della triade nucleare russa. Non è la stupidaggine che qui interessa, ma il fatto che esprime una volontà disperata di pantografare le perdite russe per continuare a sostenere la possibilità di vittoria del regime paranazista di Kiev. Una balla necessaria ad alimentare la guerra, la paura, la tensione, le speculazioni e insomma tutte le piaghe d’Egitto che hanno colpito l’Occidente, con un riferimento tutt’altro che casuale alla mitologia biblica. Ma ecco che dentro l’esagerazione si annida il retropensiero: Pearl Harbour… ma come si fa a trovare un paragone così improprio e così assurdo per evocare l’inizio di un conflitto tragicamente perso dagli attaccanti? Tanto più che questi atti terroristici non hanno alcuna influenza reale sull’inevitabile corso della guerra.
Forse il retropensiero angoscioso è che la Gran Bretagna, insieme ai compagnucci della Cia che ci mettono comunque i soldi, ha prodotto la sua Shit Harbour in Russia, però alla fine ne dovrà pagare le conseguenze. Del resto è il sentimento dominante nell’Occidente del nichilismo da supermercato e particolarmente in Europa: mentre i burattini si agitano per cantare le loro res gestae, come fossero paladini dei pupi siciliani, il sentimento della sconfitta storica del continente si affaccia angosciosamente alla coscienza, persino nelle teste di legno che reggono la politica. Gridano Tora Tora Tora, ma temono di concludere la loro storia con una Hiroshima. Quando la prima bomba scoppiò su una delle più importanti città del Paese, il governo giapponese chiese ai propri scienziati che lavoravano nei laboratori posti in Corea (allora territorio in mano a Tokio) quanto tempo ci sarebbe voluto per poter approntare una bomba analoga e si sentì rispondere: “non meno di sei mesi”. Troppo tardi per evitare la resa senza condizioni. Del resto anni prima l’ammiraglio Yamamoto aveva avvertito il governo nipponico che uno scontro diretto con gli Usa, non avrebbe avuto un esito favorevole: mise a punto il piano dell’attacco di Pearl Harbour, ma avvertì che solo una vittoria completa delle forze dell’Asse sulla Russia avrebbe dato al Giappone quelle materie prime che doveva importare via mare, con tutti rischi del caso in tempo di guerra che si aggiungevano alle vecchie sanzioni di Washington.
L’Europa invece ha pensato bene di recidere fin dall’inizio il cordone ombelicale con le risorse energetiche e minerarie russe, in maniera da essere completamente esposta. E sarà esposta a lungo perché evidentemente Trump ha perso qualsiasi credibilità con i russi e dimostra di essere sempre più risucchiato dallo stato profondo. Davvero poteva pensare che questi attacchi avrebbero ammorbidito Mosca dandogli la possibilità di presentarsi come il pacificatore che ha il coltello dalla parte del manico? La stupidità di questi personaggi va oltre ogni immaginazione e ogni più fosca previsione o speranza.
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