Il teatrino diplomatico in presenza della realtà dei rapporti di forza

Orazio Di Mauro

La giornata del 18 agosto 2025 a Washington, è stata segnata dall’arrivo di Zelensky e dei leader europei alla Casa Bianca. I media lo  hanno presentato come un passaggio decisivo sul piano diplomatico. Tuttavia, una analisi accurata della dinamica internazionale fa emergere un’evidente sproporzione tra lo spettacolo degli incontri e la sostanza dei rapporti di forza che determinano l’andamento di questo e di tutti i conflitti, e ci dice altro.

L’Europa appare scivolare verso una crescente marginalità che la rende di volta in volta irrilevante. La dipendenza energetica e militare europea dagli Stati Uniti è a questo punto della storia strutturale, mancano le capacità autonome di proiezione strategica ridotte a  pressoché nulla. Le grandi potenze continentali – Germania, Francia e Regno Unito non sarebbero in grado di mettere in campo neppure centomila uomini, riducendosi ad una influenza minima poco credibile. Dopo tre anni e mezzo di guerra L’Europa ha dovuto accettare una realtà che non racconta ai propri cittadini il suo essere irrilevante proprio nel suo stesso teatro geopolitico.

Questa debolezza si inserisce in un quadro storico di lunga durata. Il continente europeo, nel corso dei secoli, ha più volte cercato di intaccare la stabilità russa per ragioni economiche e geopolitiche. Oggi, l’appoggio all’Ucraina viene interpretato in Russia come una prosecuzione di quella logica di pressione costante verso est. Per contro gli Stati Uniti, pur mantenendo un ruolo di potenza di primo livello, si trovano di fronte a limiti tangibili, vedi Yemen, Afghanistan ecc. La capacità militare convenzionale americana è spesso sovrastimata, mentre l’esperienza storica dal 1945 in avanti mostra una sequenza di guerre non vinte o concluse con esiti ambigui. Le operazioni in Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan hanno evidenziato difficoltà strutturali nel sostenere conflitti di logoramento prolungati. Nel caso ucraino, la difficoltà a conseguire risultati concreti e a mantenere coesa l’alleanza transatlantica ha reso evidente la sproporzione tra ambizioni politiche e possibilità reali.

Sul versante opposto, la strategia russa si concentra meno sulla conquista territoriale e più sulla distruzione sistematica delle capacità militari avversarie. L’obiettivo principale non è annettere l’intera Ucraina, ma neutralizzare le forze armate nemiche e ridurre in maniera irreversibile il potenziale bellico della NATO. Questa logica, spesso mal capita dagli analisti europei, si può decifrare come una progressiva “demilitarizzazione” dell’Occidente collettivo, che appare privo delle risorse materiali necessarie per sostenere un conflitto di lunga durata.

Simmetricamente, Mosca inserisce la politica ucraino europea nel quadro di trasformazioni globali che vedono i BRICS emergere come nuovo polo di potere economico e tecnologico. L’Europa, invece, sembra avviata verso un declino strutturale, aggravato dall’assenza di risorse energetiche proprie e dalla dipendenza da filiere industriali esterne.[1]

In sintesi, gli incontri diplomatici di Washington mettono in luce il contrasto tra due dimensioni: la forma spettacolare della politica, fatta di summit e dichiarazioni, figlia della società dello spettacolo con cui le elite europee hanno nutrito le classi dominate e la sostanza dei rapporti di forza materiali, che sul campo favoriscono la Russia. La NATO è risultata impreparata e tecnologicamente arretrata (i nostri sistemi antimissile SAM-Pt stanno li a ricordarlo ai nostri generali), si trova in difficoltà crescenti, mentre l’Europa scivola verso l’irrilevanza.

L’elemento dirimente non è il linguaggio della diplomazia, ma la capacità di sostenere una guerra di logoramento con uomini, risorse e capacità industriali. La convinzione, in massima parte europea, che il conflitto possa essere deciso da tavoli negoziali o da accordi di facciata ignora che, nella tradizione geopolitica, la guerra rimane il primo strumento di affermazione degli interessi strategici. [2]

L’analisi della situazione evidenzia che il sistema occidentale si trova oggi a fronteggiare una crisi strutturale di risorse e di credibilità. L’Europa, priva di autonomia strategica, sta scivolando verso una marginalità crescente, incapace di influenzare gli equilibri internazionali se non come estensione della politica statunitense. Gli Stati Uniti, pur restando l’attore primario, incontrano difficoltà sempre più evidenti a sostenere conflitti prolungati, soprattutto in un contesto in cui la legittimità interna e la coesione degli alleati risultano indebolite. La Russia ha posto al centro della propria strategia non soltanto il confronto militare, ma anche la costruzione di alternative economiche e tecnologiche attraverso i BRICS e nuovi partenariati globali. L’obiettivo principale russo non è l’occupazione territoriale, bensì la neutralizzazione della minaccia militare posta dall’Occidente collettivo. In questo senso, la guerra in Ucraina appare come una fase intermedia di un più ampio processo di ridefinizione dell’ordine mondiale, che potrebbe passare per il fuoco di una guerra generalizzata e in parte con l’uso di armi nucleari tattiche. Le prospettive future dipenderanno dalla capacità degli Stati Uniti di riconoscere i propri limiti strutturali e dall’abilità della Russia di consolidare i propri successi militari e diplomatici senza sovra estendersi. L’Europa, infine, si trova di fronte a una scelta storica: continuare a dipendere da logiche di potenza, quali essa vuole interpretare, ma non è capace di fare. L’Europa non è in grado di  ripensare radicalmente la propria collocazione internazionale. In assenza di un’autonomia reale, il rischio è quello di un declino irreversibile che segnerà non solo la politica, ma anche la stessa identità culturale del continente.

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