di lorenzo merlo
Sebbene la tendenza al tempo disastroso che permane sulla cultura sia ben affermata e senza necessità di dimostrazione, ogni volta che qualche vicenda riesce ad aumentarne la media negativa, la questione torna al dolore della carne viva.
“Nel tempo libero curo mio figlio”. Questa affermazione è apparsa nei titoli dei giornali di qualche giorno fa. Non ho nulla contro colei che l’ha pronunciata. Non è necessario riferire chi sia in quanto ciò che importa è un livello più ampio, è il livello culturale che ha permesso la formulazione della frase citata.
Frase e concezione di madre che dice tutto sulla direzione, più che esiziale, in cui va la cultura, cioè tutto.
Frase passata senza reazioni scioccate da parte della stampa, della politica, di qualche istituzione civile, e neppure religiosa.
Frase dolorosa che contiene in sé quanto ci siamo allontanati dalla natura che siamo. Una distanza che abbiamo percorso sulla scia del progresso e la sua promessa di felicità come somma di acquisti. Anche in nome del femminismo, forse il movimento che, più di altri, si è nel tempo deformato. Da diffusore della consapevolezza della pari dignità delle donne, è divenuto un mostro, replicante del peggior modello maschile, anche agli occhi di molte donne. Persone dal respiro libero, non asfissiato dall’ideologia che, come tutti i fideismi, con il rispetto, la dignità e la parità non ha nulla a che vedere.
Frase sconsolante, che seppellisce la forza delle donne. Quella degli uomini è caduta, da tempo, per prima sotto lo stesso maglio che ha dato forma a quella fila di parole, di pensieri, di concezione, di, ancora inavvertita, disperazione e perdizione. Che ha permesso le politiche oggi sulla cresta dell’onda, integralmente intente ad alimentare la mortificazione di quanto è ancestrale in noi, totalmente dedicate a sottrarci la bussola naturale, assolutamente impegnate a fare di noi oche da foie gras di falsi valori materiali.
Eccessiva reazione per una frase in fondo vera? Tanta reazione per niente? Per così poco? Le parole rivelano uno spettro più ampio dello stretto significato letterale. Le parole impiegate per descrivere rivelano la prospettiva con la quale guardiamo il mondo.
“Nel tempo libero curo mio figlio”. Non deve passare sotto silenzio una frase così, neppure se pronunciata da persone che lavorano. Se tecnicamente non fa una piega – ma non la farebbe neppure dire che le donne sono un buco – in quanto allude al tempo libero dal lavoro, è la legittimazione di quelle parole per il loro significato tecnico, che le fa diventare il sintomo di una cultura che non ha più niente di natura. Dovrebbe, invece, accadere il contrario, cioè che nel tempo libero dall’educazione e dalla cura della prole ci si può dedicare ad altro. Ma neppure così è abbastanza. In una cultura non pregna di metastasi della mercificazione, la cura genitoriale non ha il diritto di interruzioni, soprattutto spirituali. Diversamente siamo al turismo genitoriale per caso. Siamo all’appropriazione indebita e impunita delle nuove vite. Siamo infatti alla maternità surrogata, al figlio della carta di credito di chi compra e della miseria di chi giunge a mettere a disposizione se stessa, magari per una lavatrice. Non è da escludere.
Fa ridere? Oh, sì, fa ridere chiunque si sia piegato agli imperativi culturali, non ultimo, ma primo, al suo linguaggio pieno di io e di realtà oggettiva, di jingle e di repliche di luoghi comuni. Vite consumate entro il calderone di petulante, insistente e invadente comunicazione dei notiziari, della pubblicità, delle canzonaccie (gran parte), dei dj. Goccia dopo goccia la cultura ci costruisce, così, si diviene, senza sforzo quando non con comodità, la stalagmite che essa ci impone di essere per sostenersi, per propagarsi. Una moltitudine di persone calcificate, che senza difficoltà alcuna, se interpellate, in quattro e quattrotto trovano le ragioni, culturalmente e, a volte, legalmente autorizzate, della propria lascività etica. Ma mai lo spunto per afferrare la narrazione che cola giù dall’alto, quella che trovano pronta in tavola, e provare, tentare, sforzarsi di vederne l’origine e il significato, perché è in quel modo (TINA) e non in altro per, eventualmente, condividerla a ragion veduta o prenderne le distanze.
E se così andasse, madri o padri, si guarderebbero dall’esprimere quella frase senza avvertire di aver abiurato a se stessi. Senza la consapevolezza di aver dato un calcio in avanti al macigno che ci sta travolgendo.