Qualche giorno fa mentre l’Occidente giocava con i dazi e l’America sembrava credere di poter trasformare in un’arma il proprio patologico consumismo, ovvero la dipendenza dai prodotti di importazione, la Cina ha annunciato il successo ottenuto con il primo reattore nucleare al torio. E questo corrisponde alla differenza che esiste tra un reality e la realtà. Certo si potrebbe continuare dicendo che tra qualche mese verrà inaugurato il treno più veloce del mondo tra Pechino e Shangai e che il nuovo aereo commerciale interamente cinese a fusoliera larga, sta già cominciando a ricevere ordini esteri, ma il reattore a sali di torio è qualcosa che si situa a un livello superiore perché questo elemento è un’alternativa molto più sicura e abbondante dell’uranio per produrre energia, non è radioattivo di per sé, è ampiamente disponibile, è più economico da estrarre, ha una maggiore densità energetica e produce molte meno scorie nucleari di lunga durata. Insomma in attesa della fusione che tuttavia è ancora molto lontana, ammesso che ci si riesca entro questo secolo (ma la Cina è all’avanguardia anche in questo campo) abbiamo adesso la possibilità di produrre energia pulita con solo una frazione dei rischi e dei problemi che il nucleare implica e che non sono limitati alle centrali in sé, bensì a tutta la lunga filiera di materiale radioattivo e del relativo arricchimento.
Basti pensare che una sola miniera, quella di Bayan Obo, situata nella Mongolia interna, possiede depositi di torio sufficienti a soddisfare il fabbisogno energetico della Cina per i prossimi 20.000 anni, Nel frattempo, gli sforzi degli Stati Uniti per sviluppare un reattore a sali fusi restano sulla carta: nonostante il sostegno bipartisan del Congresso e le iniziative del Dipartimento dell’Energia debbono ancora metterci mano e passerà un decennio prima di vedere qualche risultato sperimentale. E non parliamo dell’Europa che è partita con ancora più ritardo e oggi vorrebbe bruciare le proprie risorse in una guerra che può soltanto perdere. Come si può constatare l’evoluzione tecnologica si può realizzare senza essere sovrastati da una teologia tecnocratica.
Mi sono dilungato un po’ per mostrare quanto siano ormai anacronistici i conati dell’Occidente per conservare un potere di interdizione e di comando che non è più nelle cose. E i dazi, poi rivelatisi in gran parte una semplice drammatizzazione trumpiana, hanno più che altro spinto altri Paesi a cercare maggiori rapporti fra loro per respingere il pizzo che gli Usa vorrebbero imporre. Ho davanti agli occhi la sfilata di delegazioni ai funerali del Papa, evento che di fatto riguarda principalmente gli occidentali e la loro funzione di dominio universale esercitata negli ultimi quattro secoli. Quasi si è sentita l’atmosfera di cordoglio non per un Papa che rappresenta pur sempre un punto di vista domabile, come abbiamo visto con Bergoglio, però non assimilabile completamente all’ideologia dominante, quanto per tutto un mondo che deve affrontare il proprio tramonto e insieme anche la propria possibile rinascita dentro un contesto molto diverso. Forse sarà stata la cerimonia funebre in latino con inserti in greco che a noi suona molto più ieratica delle lingue moderne, sarà stato l’andamento coreutico che a volte ricorda la tragedia greca, sarà stato il fatto che presumibilmente nessuno dei potenti era in grado di comprendere le parole che venivano pronunciate, ma tutto mi è sembrato una commemorazione di un intero mondo.
Certo solo impressioni. Quando Marco Polo giunse alla corte del Gran Khan gli fu chiesto se fosse venuto per riscuotere il tributo in nome dell’impero d’Occidente che già non esisteva più, anche se formalmente continuava a Bisanzio. Il mercante veneziano naturalmente negò, ma c’è qualcuno che ancora oggi ci prova, portando le vesti dell’imperatore, senza accorgersi della propria nudità.
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